“L’ emendamento della legge sulla nazionalita’’, era il tema discusso ieri da un centinaio di rappresentanti di ONG convenute ad un seminario organizzato dai responsabili del progetto PNUD (Programma Nazioni Unite per lo Sviluppo)
“ I diritti delle donne libanesi e la legge sulla nazionalita’”.
A seguito dell’azione di diverse organizzazioni, con a capo “le Comite’ de suivi des affires de la femme libanese et le Consil de la femme liabanese”, come pure l’azione di diversi parlamentari, il Parlamento dovrebbe adottare un progetto di legge nei prossimi mesi. Dovrebbe modificare leggermente la legge sulla nazionalita’ datata 1925, particolarmente la parte che riguarda il diritto della donna a trasmettere la nazionalita’ ai suoi figli.A questo proposito, la legge libanese , che e’ una legge di sangue riguardo alla nazionalita’, e’ discriminatoria nei confronti delle donne , impedendo loro di dare la loro nazionalita’ ai loro figli e mariti.Secondo diverse fonti, il testo di legge attualmente in gestazione dovrebbe permettere alle donne di trasmettere la nazionalita’ libasese ai propri figli con qualche eccezione.Sembra che per rassicurare I libanesi che temono l’insediamento dei Palestinesi, il testo che sara’ adottato impedirebbe quelle che sono sposate a rifugiati palestinesi di concedere la la nazionalita’ ai propri figli. Pertanto queste donne secondo uno studio dell’Agenzia delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (PNUD), non costituiscono che il 3% delle libanesi sposate con uno straniero. Al contrario gli uomini libanesi sposati con una rifugiata palestinese trasmetto la nazionalita’ alle loro donne e ai loro figli. Questo e’ in vigore dalla creazione dello Stato di Israele nel 1948 e non influisce sul concetto di diritto al ritorno alle loro terre di origine che hanno le libanesi e i rifugiati palestinesi .
Legge discriminatoria[…] Ieri, dunque nell’inaugurare la sessione, la presidente del Comite’ de suivi des affaires des femme libanaise , Amane Kabbara Chaarani, ha messo l’accento sull’attivita’ intraprese dall’organizzazione che rappresenta “ e che mira a sensibilizzare la popolazione sulle leggi discriminatorie verso le donne, particolarmente quelle relative alla nazionalita’, alla Sicurezza sociale e allo stato civile pure al codice del lavoro e penale”.Grazie aulla campagna effettuata in tutto il paese, “ il comitato ha potuto censire un importante numero di donne sposate a stranieri” sottoneando che “ il fatto di non dare ai figli della donna libanese la nazionalita’ della loro mamma, soprattutto se vivono in Libano, crea numerosi problemi, relativamente all’integrazione alla vita attiva, all’ospedalizzazione,all’educazione e alla Sicurezza sociale”.
Prendendo la parola, la rappresentatnte permanete dell’Agenzia delle Nazioni Unite per lo Sviluppo PNUD, in Libano, Marta Ruedas, ha sottolineato che “l’eguaglianza tra uomini e donne e’ assicurata dalla Costituzione in Libano, se le donne non sono riconosciute interamente come cittadine non potranno mai partecipare allo sviluppo delle loro famiglie, delle loro comunita’ e societa’.Ha indicato inoltre che nel 2008, “nell’ambito del progetto relativo ai diritti delle donne libanesi e la legge sulla nazionalita’, progetto scaglionato in due anni, l’Agenzia delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, PNUD, ha iniziato la coordianzione con il comitato de suivi des affires des femmes”.“Obiettivo di questo progetto e’ emendare la legge al fine di permettere alle donne di trasmettere la nazionalita’ ai loro figli e mariti” ha dichiarato, notando che “le leggi sono state modificate in altri paesi arabi, come l’Egitto, il Marocco, l’Algeria e la Tunisia”.Da parte sua, il Ministro dell’Interno Ziyad Baroud, ha ricordato che “il Libano ha aderito nel 1996 alla convenzione per l’abolizione di tutte le forme di discriminazione verso le donne adottando riserve concernenti l’art. 4 della legge 16 sulla nazionalita’”. “Riserve erano state ugualmente adottate nei confronti di articoli di questa convenzione riguardanti la legge sullo stato civile che e’ monopolio delle diverse comunita’ religiose del paese” ha aggiunto.Ha spiegato che nel corso degli anni, certi tribunali avevano interpretato l’articolo 4 della legge in modo di permettere alle libanesi sposate a stranieri il cui coniuge era deceduto di trasmettere la nazionalita’ ai loro figli.Baroud ha sottolineato che la legge adottata nel 1925 sulla nazionalita’ e’ contraria alla Costituzione adottata nel 1926 e che garantisce l’uguaglianza dei cittadini libanesi di fronte alla Legge. Ha aggiunto che la nuova legge sara’ adottata con tutti I requisiti (garde-fous) necessari e sara’ conforme alla Costituzione libanese.
Le musulmane piu’ numerose nel sposare stranieri di paesi arabi
Riguardo ai lavori del progetto PNUD avviati nel 2008 e scaglionati su due anni, essi comprendono uno studio sulla situazione delle donne libanesi sposate a stranieri, seminari per discutere I risultati di questi studi, un testo di legge che dovra’ essere sottoposto al Parlamento e la formazione di una lobby di ONG impegnata a far rispettare I diritti delle donne.Riportiamo qualche risultato di uno studio preliminare effettuato presso 26 istitutzioni religiose e statali concernenti al donna libanese sposata a starnieri. Questo censimento copre un periodo che va dal 1996 al 2008 e ingloba 17860 libanesi sposate a stranieri e aventi registrato il matrimonio in Libano.“8,2% delle musulmane sono sposate a stranieri, il 2% e’ il tasso delle cristiane sposate a starnieri”, sottolinea lo studio che non prende in considerazione I matrimoni non registrati in Libano. E’ il caso di molti matrimoni misti tra libanesi e occidental. Secondo I dati disponibili, tra le donne musulmane sposate a stranieri, l’81,8% sono sposate ad Arabi, il 9,1% ad Europei e il 4,7% ad Americani.Riguardo alle cristiane sposate a stranieri, il 50,2% di loro sono sposate ad Arabi, il 25,6% ad Europei e il 16,3% ad Americani.
In Llibano il flagello della droga colpisce i giovani appartenenti a tutte le classi sociali.
Nella Valle della Bekaa circa 25000 famiglie dipenderebbero dal raccolto di cannabis per vivere, nei periodi piu’ favorevoli la cannabis si vende a 1000 dollari. Durante gli avvenimenti del maggio 2008 i prezzi sono letteralmente esplosi.
La droga fa vivere la Bekaa
Secondo differenti rapporti dell’ONU durante la guerra civile che ha devastato il Libano tra il 1975 e il 1990, l’industria libanese di hashich e di oppio, che si estendeva su circa un terzo della superficie arabile della Bekaa – un quarto di paese per circa 250.000 abitanti – rappresentava una cifra di affari di circa 500 milioni di dollari l’anno. Il profitto, per i coltivatori dei vigneti intorno a 80 milioni di dollari l’anno.
Circa 25.000 famiglie dipendevano direttamente dal raccolto di cannabis per vivere.
Piu’ di 10000 tossicomani
Non esistono statistiche ufficiali per la consumazione di sostanze psicoattive lecite o illecite in Libano. I soli dati esistenti sono da considerarsi con cautela in quanto la scelta del campione della popolazione, il metodo utilizzato e la mancanza di continuita’ nello studio li rendono contestabili. Non di mento, la maggior parte delle ONG, che lavorano sul campo da piu’ anni stimano il numero dei tossicomani e dei dipendenti in circa 10000, 15000 persone. Questa cifra e’ in costante aumento. Secondo la loro constatazione, piu’ del 59% dei consumato sono dipendenti dall’eroina, 34% alla cannabis, 31% alla cocaina , 31% alle amfetamine e 30% dall’alcool.
La fascia di popolazione piu’ esposta e’ quella tra i 15 e i 25 anni.
Uno studio condotto dall’ufficio delle nazioni unite per la droga e il crimine , nel 2001, sulla base di tre campioni di popolazione libanese, mostrano che l’eta’ della “prima volta” e’ considerabilmente diminuita nel corso di questi ultimi anni, variando dai 15 ai 20 anni contro i 25 – 30 anni all’inizio degli anni 90. Mostra ugualmente che la frequenza della consumazione di sostanze incriminate e’ piu’ elevata e che una grande maggioranza non dispone di informazioni sul livello della nocivita’ delle droghe.
Prevenzione – mezzi insufficienti
In Libano diversi organismi si sono specializzati nel trattamento medico e psicologico delle sostanze additive. Piu’ ospedali privati, organizzazioni non governative e organismi pubblici, presenti sull’insieme del territorio libanese, tentano di stroncare l’aumento della popolazione dipendente.
Esistono circa una decina di centri di trattamento integrato nei dipartimenti ospedalieri di psichiatria. Ma sono le organizzazioni senza scopo di lucro che si assumono il grosso del lavoro. Con mezzi meno importanti, ma con una copertura che si estende a tutto il territorio, ognuno di loro accoglie, nel proprio centro tra i 50 e i 20000 pazienti ogni anno. Le autorita’ pubbliche hanno acquisito nel corso degli anni un posto sempre piu’ importante. Il ministero della Salute Pubblica, che ha creato un ufficio della droga, concede alle ONG sovvenzioni e aiuti vari, particolarmente in termini di coordinamento. La lotta contro i criminali della droga e’ condotta da una fonte di informazione speciale di FSI, l’ufficio centrale per la repressione dei drogati.
L’Orient Le Jour, febbraio 09 traduzione articolo di Nada Merhi
“La presa in carico dei malati in fin di vita” nuovamente all’ordine del giorno
Conferenza La presa in carico dei pazienti in fin di vita, soggetto che non finisce di suscitare il dibattito sul piano etico. Questo tema e’ nuovamente all’ordine del giorno nel quadro di un incontro organizzato all’ospedale Hotel Dieu de France.
Relatori, medici, infermieri, e specialisti in etica medicale si sono riuniti venerdi’ all’ospedale Hotel Dieu de France(HDF) per dibattere sul tema: ”I malati in fin di vita” agire per il bene della persona”. Una conferenza, nel corso della quale e’ anche stata anche presentata l’esperienza di quattro anni, condotta in questo ambito e con obiettivo principale di studiare il miglioramento della qualita’ della vita e la presa in carico del malato in fin di vita, all’HDF e alla Maison Notre Dame des soeurs des Saint Coeurs a Hadath.
Il termine di “malato in fin di vita” o di “morente” fa appello ad una esperienza umana comune, quella di constatare che la morte diviene una realta’ imminente” sottolinea Padre Nader Michel s.i., moderatore dell’equipe di lavoro. Citando il Padre Patrick Vespieren j., direttore del dipartimento di bioethica al Centre Sevres, il Padre Nader ha spiegato che “in termini medici, un paziente e’ in fin di vita e’ in fase terminale della malattia “ , dunque “si riconosce l’arrivo imminente della morte”.
“Questo stato non e’ unicamente fondato sull’esperienza acquisita delle persone, ma ugualmente sulla scienza medica, prosegue Padre Nader. Richiede un attenzione speciale da parte dell’equipe curante e dell’ambiente familiare e sociale del malato, per comprendere la particolarita’ di questa situazione, quello che implica e il modo di gestirla. Possiamo distinguere due categorie di problemi legati a questa situazione, il primo riguarda il rapporto con il malato dal punto di vista personale e relazionale. Il secondo riguarda l’attivita’ terapeutica nei riguardi del malato.”
L’informazione al “morente”
Facendo riferimento ad un documento emesso dal consiglio nazionale dell’ordine dei medici in Francia, Padre Nader spiega che “normalmente il malato deve essere informato sulla sua situazione, per poter riacquistare il suo stato di salute e permettergli di acconsentire liberamente alle cure che gli vengono proposte.
E prosegue, “questo e’ particolarmente vero in fin di vita ed e’ ugualmente importante da un lato far partecipare il malato alle decisioni terapeutiche che saranno rpese e dall’altro alto di permettere di prepararsi psicologicamente al processo di partire e lasciare i propri cari”.
Questa insistenza sull’informazione del malato la si rtrova in altri documenti del Consiglio d’Europa che appellandosi “a rispettare la volonta’ del malato fino alla fine soprattutto per quanto concerne il trattamento da applicare”, e a proteggere “il diritto del malato incurabile e morente all’autodeterminazione”, “ dandogli un’informazione vera e completa, ma comunicata con passione, sul loro stato di salute, rispettando il desiderio che puo’ avere una persona di non essere informata”
Una istanza simile sull’informazione al malato si ritrova ugualmente nei documenti emessi dalla Chiesa cattolica, quali la “Dichiarazione sull’Eutanasia” (1980). Documento che si appella a far partecipare il malato alle decisioni che lo riguardano offrendogli un’informazione appropriata e adeguata sul sulle sue condizioni di salute.
Cambiamento di priorita’
Padre Nader si e’ a lungo attardato sulla gerarchia di priorita’ in stadio terminale della malattia, quali quelle sottolineate nei documenti emessi dalla Chiesa cattolica e dal Consiglio d’Europa.
Questi testi che rischiano di far passare “le condizioni di vita di chi sta morendo in secondo piano, nel rifiuto di rendere giustizia alla sua solitudine e alla sua sofferenza, come pure quelle dei suoi cari e di chi cura”, attirano l’attenzione sul progresso tecnologico e lo sviluppo della rianimazione.
“Questo stato di fine vita esige dunque, un attenzione particolare nei riguardi del malato, a livello medico e relazionale”, insiste Padre Nader, che evidenzia che in fin di vita “s’impone una gerarchizzazione delle priorita’ che significa che la qualita’ della vita primeggia sul suo prolungamento, divenuto possibile a causa di tecniche mediche che potrebbero essere pesanti ed a volte meno umane”., che
La questione dell’accanimento terapeutico viene sollevata in questo stadio. La Dichiarazione sull’eutansia e’ chiara riguardo a questi aspetti e affronta l’astensione dalle cure indicando che “nell’imminenza di una morte inevitabile, malgrado i mezzi impiegati, e’ permesso in coscienza di prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che non procurano che un rinvio precario e pensoso, senza interrompere pertanto le cure normali di un malato in casi simili.”
“IL medico non potrebbe allora rimproverarsi di non assistere una persona in pericolo “ sottolinea il documento.
Protocollo da seguire
I problemi quotidiani in fin di vita sono stati ugualmente sposti da Padre Nader che ha presentato inoltre un protocollo che non e’ altro che un aiuto alla valutazione e alla decisione per un etica della responsabilita’. Questo, consiste essenzialmente “in un esercizio strutturato di comunicazione interdisciplinare con il paziente e la sua famiglia all’inizio della fase di fine vita’”.
Questo protocollo, ampiamente presentato dal Dr Georges Dabar, rianimatore all’ospedale HDF, permetterebbe di salvaguardare un quadro relazionale inerente il rispetto della dignita’ umana e di procurare al paziente le cure appropriate”.
Ugualmente all’ordine del giorno di quest’incontro, i risultati di uno studio condotto all’ospedale sul vissuto e il sentire di chi cura rispetto ai casi di fine vita, presentato dalla Dottoressa Patrizia Yazbeck, anestesista e direttrice degli affari medici a l’HDF.
Un gruppo congiunto di medici e infermiere dell’HDF e della Maison Notre-Dame hanno condiviso le loro esperienze con l’attuazione della procedura di sostegno alla decisione in fine vita nei servizi di rianimazione, e di emato-oncologia.
La riunione e’ stata conclusa con l’intervento di Padre Jean Ducruet s.j., presidente del Centre d’ethique universitarie e rettore emerito dell’Universita’ Saint Joseph, che ha fatto il punto sull’aspetto legale della questione e messo l’accento sul dilemma che si pone ai medici nel momento in cui si tratta di fare scelte terapeutiche complesse in caso di malati in fin di vita.
Tocca a padre Ducruet concludere insistendo sulla nozione di proporzionalita’ delle cure come definito dal Papa Giovanni Paolo II nell’”Enciclica sul valore e l’inviolabilita’ della vita umana”, che ha insistito sulla necessita’ di risolvere i problemi che pone la situazione del paziente in fin di vita in funzione del benessere del malato.
Commissione Affari sociali AP adotta testo su assistenza malati in fin di vita [17/12/2004]La Commissione Affari sociali dell’APCE, riunita oggi a Parigi, ha adottato un progetto di risoluzione sull’accompagnamento dei malati in fin di vita. Il testo, redatto da Dick Marty (Svizzera, LDR) propone che gli Stati membri del Consiglio d’Europa definiscano ed attuino “una vera politica di accompagnamento ai malati in fin di vita che non susciti il desiderio del malato di mettere fine ai suoi giorni”. A questo scopo propone misure quali la promozione di cure palliative, senza dimenticare che il loro obiettivo è alleviare la sofferenza del malato, “con la consapevolezza che, in alcuni casi, contribuiscano ad abbreviare la loro vita” e la definizione di codice di etica medica per evitare l’attuazione di inutili terapie che possono rientrare sotto la nozione di ‘accanimento terapeutico’. Il testo ricorda il diritto del malato “capace di discernimento, di rifiutare con coscienza di causa le terapie proposte” http://www.coe.int/NewsSearch/Default.asp?p=nwz&id=5642&lmLangue=5
ai vescovi ai presbiteri e ai diaconi
ai religiosi e alle religiose
ai fedeli laici e a tutte le persone di buona volontà
sul valore e l’inviolabilità della vita umana1995.03.2565. Per un corretto giudizio morale sull’eutanasia, occorre innanzitutto chiaramente definirla. Per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. «L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati».76
Da essa va distinta la decisione di rinunciare al cosiddetto «accanimento terapeutico», ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia. In queste situazioni, quando la morte si preannuncia imminente e inevitabile, si può in coscienza «rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi».77 Si dà certamente l’obbligo morale di curarsi e di farsi curare, ma tale obbligo deve misurarsi con le situazioni concrete; occorre cioè valutare se i mezzi terapeutici a disposizione siano oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di miglioramento. La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte.78
Nella medicina moderna vanno acquistando rilievo particolare le cosiddette «cure palliative», destinate a rendere più sopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia e ad assicurare al tempo stesso al paziente un adeguato accompagnamento umano. In questo contesto sorge, tra gli altri, il problema della liceità del ricorso ai diversi tipi di analgesici e sedativi per sollevare il malato dal dolore, quando ciò comporta il rischio di abbreviargli la vita. Se, infatti, può essere considerato degno di lode chi accetta volontariamente di soffrire rinunciando a interventi antidolorifici per conservare la piena lucidità e partecipare, se credente, in maniera consapevole alla passione del Signore, tale comportamento «eroico» non può essere ritenuto doveroso per tutti. Già Pio XII aveva affermato che è lecito sopprimere il dolore per mezzo di narcotici, pur con la conseguenza di limitare la coscienza e di abbreviare la vita, «se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali».79 In questo caso, infatti, la morte non è voluta o ricercata, nonostante che per motivi ragionevoli se ne corra il rischio: semplicemente si vuole lenire il dolore in maniera efficace, ricorrendo agli analgesici messi a disposizione dalla medicina. Tuttavia, «non si deve privare il moribondo della coscienza di sé senza grave motivo»: 80 avvicinandosi alla morte, gli uomini devono essere in grado di poter soddisfare ai loro obblighi morali e familiari e soprattutto devono potersi preparare con piena coscienza all’incontro definitivo con Dio.
Fatte queste distinzioni, in conformità con il Magistero dei miei Predecessori 81 e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l’eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale.82
Una tale pratica comporta, a seconda delle circostanze, la malizia propria del suicidio o dell’omicidio.
Una mia opinione personale
Il caso di Eluana Englaro e’ stato secondo me quanto di piu’ mostruoso, violento, inaudito una persona poteva fare nei confronti di una persona in stato vegetativo da 17 anni e della sua famiglia –Come hanno potuto, persone che si dichiarano cristiane, cattoliche fare una cosa simile, completamente prima di empatia, di solidarieta’ di amore per queste persone. Io rivendico la liberta’ per loro (cristiani e calttolici integralisti) a poter scegliere di vivere come ha vissuto Eluana se e’ questo che desiderano ma rivendico la mia liberta’e quella di altri a fare altre scelte.
Ammiro il padre di Eluana per il suo grande coraggio e la sua grande forza e sono vicina a lui e alla madre per il grande dolore e la sofferenza vissuta.
Mi chiedo come i governi italiani abbiano potuto permettere situazioni dolorose di questo genere (sono purtroppo ancora molte le persone in queste condizioni) e come allo stesso tempo possano schierarsi in difesa della vita –
Considero soprattutto i cattolici praticanti, integralisti e decisamente feroci e violenti, i primi a non amare gli altri e la vita, che Dio mi salvi da loro.
Mi sono sempre dichiarata cattolica ma sto pensando che forse e’ meglio allontanarsi da una chiesa disumana.
Rivendico con forza il diritto a disporre della mia vita e a non voler essere sottoposta a inutili torture (anche la tortura e’ contro la vita) per me e per i miei familiari.
Mi viene un dubbio, nel nostro mondo in cui tutto e’ in funzione dell’economia, forse anche dietro questa lotta contro eutanasia e per la difesa dell’accanimento terapeutico vi sono interessi economici – Le 40 cliniche private che esistono in Italia da chi sono finanziate, chi ci guadagna in tutto questo?
E’ la persona che interessa e anche il suo benessere oppure il mercato che c’e’ intorno a tutte queste situazioni disperate?
Le resistenze dei politici della Casa delle Liberta’ (di quali liberta’ parlano? Di quella per molti di andare all’estero a morire e della condanna per altri a morire di tortura in Italia? Oppure parlano della loro liberta’ di fare quello che vogliono?) mi fa pensare che siano gli interessi economici a spingere certe scelte.
“ONG del Libano, funghi o societa’ civile?”1878 ONG costituite in 5 anni – 493 in solo 6 mesiDopo le elezioni del Generale Michel Sleiman a Presidente della Repubblica, un nuovo ministero e’ stato formato. A Ziad Baroud e’ stata assegnata la posizione di Ministro dell’Interno. Baroud, attivo nelle organizzazioni della societa’ civile ha dato particolare attenzione a questo problema e facilitato la formazione di molte ONG la cui istanza era in attesa. Dal giorno in cui ha assunto l’incarico, l’11 luglio 2008, ha concesso autorizzazioni o ricevuto notifiche della formazione di 493 associazioni, un numero smisurato rispetto all’ammontare di permessi emessi l’anno precedente.Baroud ha sostenuto la lettera della legge che richiede l’approvazione libanese a formare associazione con semplice informazione al governo o a dare avviso e non attendere l’emissione dell’autorizzazione.Ma la questione e’ questa: queste ONG sono l’indicatore di una societa’ civile libanese piena di vita o una estensione del prevalente interesse politico o confessionale?La legge delle associazioni e’ stata emessa il 3 agosto 1909, quando il Libano era ancora sotto l’impero Ottomano. Da allora, la legge non e’ stata ne abrogata ne modificata ne fu correttamente attuata.[…]Vi sono troppe ONG?Non vi e’ un numero preciso di ONG registrate in libano, ma si stima sian circa 5000. L’aumento del numero delle associazioni si suppone sia un segno di dinamismo, solidarieta’ e sinergia sociale del popolo libanese in un paese dove i servzi sociali, specialmente per quanto riguarda la salute, l’educazione, l’ambiente e la cura per i disabili, e’ carente.Comunque, molte associazioni non lavorano per il bene comune ma personale, confessionale e per interessi politici.Beneficiano di assistenza e donazioni di istituzioni internazionali e associazioni che si da per scontato aiutino il Libano ma di fatto sono a disposizione di interessi individuali o di piccoli gruppi.[…]L’aumentato numero di associazioni, durante questo periodo, potrebbe essere legato alle elezioni parlamentari previste per il 7 giugno 2009.Molte di queste associazioni sono legate a candidati o deputati e saranno senza dubbio usate come mezzo per orientare i votanti attraverso la corruzione elettorale con il pretesto di aiuto sociale e servizi.Molti vorrebbero affermare che il termine “societa’ civile libanese” e’ un ossimoro e il numero di NGO spuntate come funghi(the mushrooming number of NGO’s), invece di essere un indicatore di societa’ civile dinamica, e’ di fatto una manifestazione di societa’ polarizzata.http://beirut7.blog.kataweb.it/2008/07/05/organizzazioni-non-governative-nel-sud-del-libano-e-nella-valle-della-bekaa/